Il fattore tempo nelle fasi pianificatorie e autorizzative del settore estrattivo

Il ritardo della Pubblica Amministrazione nella conclusione dei procedimenti relativi alle autorizzazioni di cava rappresenta, per il settore estrattivo, un forte condizionamento per lo sviluppo delle attività minerarie, costituendo un freno per nuovi investimenti e un danno per l'economia nazionale.
Tale ritardo va a sommarsi a quello relativo ai tempi della pianificazione e della programmazione delle cave, quando da tale ritardo discendono impossibilità di emanare provvedimenti autorizzativi, per assenza dei presupposti legati alle previsioni circa il posizionamento dei siti estrattivi e dei volumi utili per soddisfare i fabbisogni previsti.
Ulteriori ritardi sono da addebitare alla giustizia amministrativa, TAR e Consiglio di Stato, i cui tempi di risposta ai ricorsi degli operatori sono tali da vanificare spesso l'oggetto e l'interesse del ricorso stesso: una risposta estremamente tardiva, nella maggior parte dei casi, incontra situazioni obiettive differenti da quelle che hanno provocato il ricorso e, proprio sulla lentezza della giustizia amministrativa spesso contano le strutture pubbliche, per non veder eventualmente censurate nell'immediato le proprie decisioni.
Il secondo pilastro della politica europea delle materie prime, finalizzato a garantire all'interno dell'Unione Europea la sicurezza degli approvvigionamenti, da intendere anche quale certezza in termini di durata dei procedimenti e di garanzia di imparzialità della Pubblica Amministrazione rispetto ad una equilibrata ponderazione degli interessi in gioco, individua nei ritardi dei processi decisionali, a livello autorizzativo e programmatorio, uno dei maggiori elementi di criticità da rimuovere con un'azione di riforma, a livello normativo e amministrativo, dei processi decisionali.
Il ritardo maggiormente percepito a livello di singola attività estrattiva è quello relativo alle autorizzazioni di cava che, salvo situazioni non frequenti di efficienza di alcuni uffici pubblici, soffrono sistematicamente di ritardi cronici e ingiustificati nelle scelte decisionali, se non addirittura di mancata conclusione dei procedimenti amministrativi.
Quasi tutte le leggi regionali in materia di cave individuano la durata dei procedimenti amministrativi in periodi realisticamente improponibili: il legislatore regionale, non consapevole delle condizioni della macchina amministrativa, definisce tempi per la chiusura dei procedimenti francamente privi di collegamento con la realtà dei fatti, forse per dimostrare una finta efficienza formale, destinata a soccombere clamorosamente in sede di effettivo svolgimento del procedimento amministrativo.
Il legislatore nazionale è ben consapevole del problema creato all'economia nazionale dai ritardi patologici nella chiusura dei procedimenti e, periodicamente, interviene con azioni sempre più draconiane spacciate quali interventi risolutivi dell'annosa questione dei ritardi della Pubblica Amministrazione.
Si constata, successivamente ad ogni azione di riforma del procedimento amministrativo da parte del Parlamento, non solo il fallimento sostanziale degli interventi decisi, ma anche l'aggravarsi del percorso del procedimento amministrativo stesso, dovuto sia a non ponderati effetti collaterali delle soluzioni proposte, sia a veri e propri errori di prospettiva, per incapacità di valutare gli effetti delle semplificazioni proposte.
In via del tutto teorica, i tempi e le azioni relativi al procedimento amministrativo sono scanditi, a livello nazionale, dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme sul procedimento amministrativo, ritenuta sin dalla nascita risolutiva di tutte le problematiche fino allora esistenti sul corretto svolgimento dei procedimenti amministrativi.
Le Regioni, in quanto provviste di autonomia amministrativa, hanno anch'esse legiferato in materia di procedimento amministrativo, talvolta immotivatamente differenziandosi dalla legislazione nazionale, salvo inglobare, all'interno delle leggi regionali, ampi stralci della legge 241/1990, creando percorsi amministrativi sempre più inestricabili per gli operatori del settore estrattivo, privi di armi per combattere l'incompetenza e l'avventatezza del legislatore e lo strapotere della macchina pubblica, non sempre interessata a dare attuazione a provvedimenti che potrebbero ridurre il potere della burocrazia amministrativa.
Le modifiche sistematiche e continue che ha subito la legge sul procedimento amministrativo nel corso del tempo dimostrano la non adeguata conoscenza del funzionamento della macchina pubblica da parte del legislatore, che è capace di neutralizzare anche gli interventi a priori ritenuti più efficaci.
Esaminiamo in concreto i motivi dei ritardi dei procedimenti amministrativi nel settore delle autorizzazioni di cava, cui contribuiscono spesso anche comportamenti non conformi ai principi e agli indirizzi delle legislazioni regionali e nazionali, per scelta consapevole o per mancata conoscenza dei meccanismi scritti e non scritti del procedimento amministrativo, da parte degli operatori.
Occorre premettere che troppo spesso la documentazione amministrativa e tecnica allegata a un'istanza di autorizzazione risulta incompleta in tutti i suoi allegati, sia per effettiva ignoranza delle modalità di presentazione delle istanze, sia per l'indeterminatezza delle scelte industriali non ancora ben chiare in sede di presentazione dell'istanza di autorizzazione, sia per la consapevolezza che la presentazione di un'istanza di autorizzazione costituisce solo il primo passo di un lungo percorso, da affinare nel corso dello svolgersi del procedimento amministrativo.
La legge n. 241/1990 prevede una sollecita comunicazione ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi circa l'avvio del procedimento; tale comunicazione deve contenere i dati relativi alla durata del procedimento stesso e alla data di presentazione dell'istanza, nonché i rimedi esperibili in caso di inerzia dell'Amministrazione: si tratta, nell'ultimo caso, di una disposizione normativa spesso elusa, perché le Amministrazioni procedenti omettono di dare al richiedente le informazioni perché lo stesso possa far valere i propri diritti.
Costituisce una grave patologia del procedimento amministrativo la reiterazione di richieste integrative, molto spesso in concomitanza con la scadenza dei termini procedimentali stabiliti dalla legge, al fine di guadagnare tempo e non decidere su situazioni complesse per le quali il responsabile del procedimento non è in grado o non vuole assumere una posizione di chiarezza decisionale, rimandando nel tempo la conclusione del procedimento amministrativo.
Risulta spesso disapplicata la previsione legislativa contenuta nella legge n. 241/1990 secondo la quale può essere richiesta, nella fase di avvio del procedimento, una sola integrazione documentale relativa all'acquisizione di documentazione amministrativa non allegata all'istanza, che deve essere fornita entro trenta giorni dalla data di richiesta.
La risposta spesso tarda ad arrivare, per cui già nella prima fase il procedimento si avvia verso una prima dilatazione della durata del procedimento. Rientra tra le possibilità dell'Amministrazione il poter archiviare l'istanza, per mancato adempimento all'obbligo di corrispondere alla richiesta integrativa: non si archivia quasi mai, in quanto il ritardo nella risposta, addebitabile al richiedente, erroneamente non viene inteso quale ritardo addebitabile al procedimento.
Il legislatore nazionale, saggiamente, ha individuato uno strumento, in origine ritenuto risolutivo di tutti i problemi di gestione del procedimento amministrativo legati alla durata del procedimento stesso e all'insorgere di conflitti tra Amministrazioni per difficile composizione degli interessi rappresentati; si tratta della Conferenza dei Servizi, cui partecipano tutte le Amministrazioni deputate alla espressione dia autorizzazioni, pareri, nulla osta, etc. necessari per il concreto esercizio dell'attività estrattiva di cava.
In sede di Conferenza dei Servizi si risolvono le problematiche relative alle carenze progettuali, talvolta riferibili alla poca chiarezza delle istruzioni circa il contenuto dei progetti stessi, nonché ai ritardi non governati circa l'espressione dei pareri previsti da parte di organismi tecnici consultivi.
La Conferenza dei Servizi, strumento facoltativo, nella sua prima seduta deve definire la data di chiusura dei propri lavori, che devono concludersi entro i novanta giorni dalla data di inizio dei lavori stessi; la prima riunione deve essere convocata entro quindici giorni dalla sua indizione o, nei casi di maggiore complessità istruttoria, entro trenta giorni dalla sua stessa indizione.
Possono essere richiesti, per una sola volta, e solo in sede di Conferenza dei Servizi, ai proponenti dell'istanza o ai progettisti, chiarimenti o ulteriore documentazione. Se questi ultimi non sono forniti in detta sede, entro i successivi trenta giorni si procede all'esame del provvedimento.
La Conferenza dei Servizi si sospende per periodi più lunghi, ma comunque ben definiti, per la conclusione dei procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), qualora presenti. Il procedimento relativo alla VIA meriterebbe un discorso a parte, in quanto esso stesso dà origine a ritardi enormi e il più delle volte ingiustificati; durante i procedimenti relativi alla VIA il richiedente resta in balia di commissioni variamente assortite e di una pletora di richieste da parte di un gran numero di Amministrazioni, ognuna delle quali asseritamente legittimata a intervenire nel procedimento.
La disamina di cui sopra, apparentemente pedante e noiosa, serve a evidenziare un concetto netto e chiaro: la chiusura della Conferenza dei Servizi, considerando il caso più complesso ( convocazione entro trenta giorni dalla data di indizione e acquisizione di informazioni e documenti entro trenta giorni dalla richiesta), non può mai essere successiva a centocinquanta giorni dalla data di indizione.
Il termine conclusivo di cui sopra risulta, in relazione alla durata prevista per la chiusura del procedimento amministrativo, addirittura impraticabile, se si considera che le varie leggi regionali prevedono tempi molto ristretti per l'espletamento delle procedure autorizzative di cava: a titolo di esempio si riporta il termine di novanta giorni previsto dalla legge n. 14/1998 della Regione Lombardia e quello di centoventi giorni previsto dalle legge n. 69/1998 della Regione Piemonte per la durata dei procedimento amministrativi di autorizzazione all'esercizio di cava.
La previsione irrealistica circa la durata dei procedimenti, difficilmente attuabile, giustifica il mancato rispetto della durata stessa, che diventa una variabile incontrollata del procedimento amministrativo.
Le motivazioni effettive per cui si determinano i ritardi nei procedimenti autorizzativi di cava, analiticamente e non esaustivamente, possono essere individuate nelle seguenti, che, agendo in sinergia, fanno esplodere le contraddizioni della legislazione.
• I progetti di cava molto spesso risultano incompleti, non chiari negli obiettivi di coltivazione e recupero ambientale, talvolta volutamente, in quanto si rimanda alla fase del procedimento autorizzativo l'affinazione delle scelte tecniche e la definizione degli obiettivi, in funzione delle risultanze di un prolungato confronto che dovrà svolgersi con tutte le Amministrazioni interessate, di cui non si conoscono apriori gli orientamenti;
• Il procedimento autorizzativo è visto non già come una fase in cui si effettuano esclusivamente scelte di tipo tecnico ed amministrativo, bensì quale momento di composizione di interessi più generali di programmazione e di scelte politiche che dovrebbero essere estranee alle funzioni e ai compiti dell'Amministrazione interessata: la sede autorizzativa diventa quella della mediazione, con un'attività non propria del procedimento amministrativo in senso stretto;
• Il progetto di cava subisce affinamenti successivi, che necessariamente richiedono più interventi tecnici sul progetto stesso;
• Il richiedente non risponde nei tempi previsti dalla legge n. 241/1990 (entro trenta giorni), alla richiesta di integrazioni informative e documentali: per scelta dilatoria del richiedente o per obiettive necessità tecniche di aggiornamenti progettuali di elevata complessità, tali da richiedere tempi congrui;
• Vi sono ritardi dovuti all'eccessivo carico di lavoro degli Uffici o semplicemente per inerzie e inefficienze degli Uffici stessi;
• Ritardi inammissibili nei tempi di risposta di Enti e Comitati alla richiesta di pareri obbligatori o facoltativi;
• Si acquisiscono osservazioni, pareri, prese di posizione dei partecipanti alla Conferenza dei servizi anche fuori dalla Conferenza stessa: il responsabile del procedimento omette di dichiararne l'inammissibilità come previsto dalla legge n. 241/1990, ma ne tiene conto, con aggravio ingiustificato e compromissione del procedimento;
• Altre motivazioni non meglio definibili.
L'imprenditore di cava, quando non sia esso stesso la causa dei ritardi del procedimento, accoglie passivamente l'evolversi temporalmente inaccettabile del procedimento, e solo in rari casi reagisce con gli strumenti che la legge mette a sua disposizione: si ha il timore, a parere dello scrivente del tutto ingiustificato, di ritorsioni o irrigidimenti da parte dell'Amministrazione procedente. Per mia esperienza personale l'Amministrazione tende maggiormente a concludere i procedimenti dei richiedenti che riconoscono i propri diritti e che ne richiedono il rispetto.
Troppo spesso assistiamo a "mugugni" da parte degli imprenditori per i ritardi insopportabili del procedimento; si tratta di manifestazioni prive di effetto concreto sul procedimento in corso, che sostanzialmente riconoscono l'ineluttabilità dei ritardi e dei malfunzionamenti, così contribuendo al permanere di una situazione negativa nei loro confronti.
La legge n. 241/1990 ha messo a disposizione degli imprenditori due strumenti a ristoro di eventuali danni derivanti da un eventuale danno patrimoniale dovuto al ritardo nella conclusione del procedimento.
L'art. 28, comma 9, del decreto legge n. 69/2013 (decreto del fare) prevede che la Pubblica Amministrazione procedente, o, in caso di procedimenti in cui intervengono più Amministrazioni, quella responsabile del ritardo, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato a istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a euro 30 per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro.
Si tratta di una disposizione manifesto, a soli fini propagandistici, senza effetti concreti sull'andamento dei procedimenti autorizzativi di cava, sia per il limite troppo basso all'indennizzo definito, sia perché l'interessato, per averne diritto, deve attivarsi entro il termine, troppo breve, di venti giorni dalla scadenza del termine per provvedere da parte della Pubblica Amministrazione.
Il richiedente l'autorizzazione, confidando in una conclusione positiva del procedimento, certamente non attiva nei termini ristretti di cui sopra una procedura ostile nei confronti degli Enti preposti al rilascio dell'autorizzazione, anche perché ne teme eventuali determinazioni negative.
L'art. 2-bis della legge n. 241/1990, ancora, dà possibilità al danneggiato per il ritardo a provvedere da parte della Pubblica Amministrazione di richiedere il risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Il percorso da intraprendere per l'effettivo ristoro del danno ingiusto cagionato dal ritardo a provvedere appare estremamente tortuoso, e tale da richiedere notevole dispendio di tempo e di energia, per cui se non in casi veramente eclatanti, non viene intrapreso, soprattutto per i ritardi e le complessità nella svolgimento della necessaria azione giudiziaria.
In caso di mancato rispetto dei termini del procedimento è possibile adire ad un livello decisionale superiore, al fine di completare il procedimento amministrativo in un tempo pari alla metà di quello previsto dalle leggi regionali: l'autorità cui è possibile rivolgersi è chiaramente individuata sui siti web delle Amministrazioni interessate.
Non risulta allo scrivente che tale possibilità sia stata presa in considerazione, se non in rarissimi casi, in quanto gli operatori diffidano di intraprendere percorsi amministrativi con funzionari e strutture di cui non conoscono competenze e orientamenti, anche perché, comunque, non si potrebbe fare a meno, nella sostanza, della struttura che non ha provveduto a chiudere il procedimento, che condizionerebbe le valutazioni da effettuare.
Personalmente, non si vede perché un ufficio non dovrebbe adempiere alle proprie funzioni istituzionali, trasferendo ad altri l'onere di determinazioni cui l'ufficio stesso ha omesso di adempiere; l'unica giustificazione possibile sarebbe quella relativa a momentanei picchi di lavoro o a carenze di personale qualificato, ma tale giustificazione dovrebbe reggere solo per periodi limitati, in attesa di celeri soluzioni agli inconvenienti riscontrati.
Tutte le considerazioni precedenti portano a evidenziare una sostanziale situazione di supremazia della Pubblica Amministrazione, cui corrisponde una timidezza comportamentale e operativa degli imprenditori minerari nel tutelare i propri interessi legittimi, dovuta anche a carenze e incertezze circa la documentazione dei propri obiettivi industriali.
Si ritiene sia compito delle Associazioni datoriali, astraendo dai singoli procedimenti amministrativi, incidere su decisioni e comportamenti della Pubblica Amministrazione non in linea con le previsioni normative, e il caso del ritardo nel provvedere vi rientra pienamente.