Il contributo analizza, in chiave storico-critica, l'evoluzione morfologica e funzionale di piazza Sant'Agostino a Modena e del sistema edilizio che la definisce, dalla chiesa conventuale medievale allo Spedale settecentesco, fino alla configurazione assunta alla fine del Novecento
Introduzione
L'assunto è che le vicende storiche non costituiscano un semplice sfondo, ma agiscano come motori di trasformazione dello spazio urbano: mutando assetti politici, pratiche assistenziali e dispositivi di rappresentanza; cambiano la dimensione, l'uso e la percezione della piazza, nonché la sua relazione di reciprocità con gli edifici che la delimitano. L'analisi segue il filo delle trasformazioni, mettendo in relazione la matrice infrastrutturale della Via Emilia e la permanenza agostiniana con la stagione riformatrice estense, per mostrare come lo spazio urbano abbia continuamente rinegoziato misura, margini e centralità. In questo processo, forma architettonica e uso non si susseguono ma si co-determinano: pratiche di culto, assistenza, sanità e cultura hanno via via richiesto modifiche ai corpi di fabbrica, ai fronti e alle soglie, ridefinendo la scena urbana. Allo stesso tempo, allestimenti, restauri e sottrazioni - dalle demolizioni ai risanamenti - hanno riscritto l'immagine pubblica del luogo, orientandone la percezione collettiva. Ne emerge come la piazza, pur non essendo né foro né agorà in senso classico, abbia assunto nel tempo una configurazione ibrida, capace di accomodare funzioni diverse nel tempo. Più che porre un interrogativo, questa lettura storica alimenta un momento di riflessione - avviato già dalla fine del Novecento e ancora in corso - sull'equilibrio dell'uso di Sant'Agostino e del suo sistema edilizio. Una riflessione che incrocia temi di conservazione e rifunzionalizzazione, rapporto tra monumentalità e uso civico, accessibilità e sostenibilità gestionale, fino al ruolo del progetto contemporaneo nei contesti storici. In questo quadro, le stratificazioni non sono solo eredità da tutelare, ma dispositivi interpretativi che orientano le scelte presenti, misurando la continuità d'uso con la riconoscibilità formale del luogo (Figura 1).
Elementi costitutivi: Via Emilia e fondazione agostiniana
Alla radice della configurazione di piazza Sant'Agostino si riconoscono due matrici che nel tempo hanno orientato misura, uso e percezione del luogo: l'asse della Via Emilia e la presenza della chiesa con il convento degli Eremitani di Sant'Agostino. La piazza è l'unica a Modena a costituire parte integrante della Via Emilia, arteria che attraversa obliquamente la città da est a ovest - da Bologna a Reggio Emilia - e coincide con il decumano del castrum romano. Tracciata nel 187 a.C. dal console Marco Emilio Lepido come infrastruttura militare tra Ariminum e Placentia, la strada divenne poi matrice commerciale: su questa spina dorsale il castrum di Mutina si fece città e centro di scambi. Non a caso, i rinvenimenti di sarcofagi emersi durante gli scavi delle fortificazioni trecentesche attestano la necropoli occidentale di Mutina in questo ambito, oggi documentata al Museo Estense: un indizio materiale di antiche pratiche e percorrenze che anticipano la vocazione di soglia del sito. L'altro polo generatore è l'insediamento agostiniano (metà XIII secolo), che includeva l'area dell'attuale piazza e che, attraverso progressive alienazioni fondiarie, predispose il campo per la successiva messa in forma dello spazio pubblico. Dal 1245 - arrivo degli Eremitani aderenti alla regola agostiniana - fino alla soppressione del 1796, la lunga durata conventuale imprime al luogo un ritmo d'uso collettivo (culto e assistenza) che si riflette nelle scelte costruttive e insediative. Stretta fra il canale della Cerca a oriente e una precedente cinta muraria a occidente, la chiesa si allinea in modo anomalo nord-sud (non secondo l'orientamento paleocristiano), registrando i vincoli idraulici e difensivi del sito. Come nelle architetture degli ordini mendicanti, l'aula unica - in laterizio, priva di transetto, coperta da capriate - privilegia la capienza e l'ascolto; un rosone in facciata e finestre alte e strette sui fianchi assicurano una luce radente, ancora oggi leggibile nelle sagome murarie laterali e nell'abside. In anticipo sulla futura piazza, un sagrato rettangolare dal perimetro incerto ordina il rapporto tra edificio sacro, convento e orto, impostando quel gioco misurato di pieni e vuoti che diventerà cifra del luogo. Non è un dato marginale il fatto che proprio la spazialità dell'insieme e la sua posizione sulla grande direttrice emiliana spiegano perché Alfonso IV d'Este scelse Sant'Agostino per le esequie del padre Francesco I. Da allora, la scena urbana si offre come palinsesto capace di accogliere apparati, trasformazioni e cambi d'uso: un dispositivo che, attraverso i secoli, rinegozia la relazione tra le fabbriche e lo spazio civico che esse definiscono (Figure 2-3).
Potere e rappresentazione: la regia estense dello spazio urbano
Subito dopo il forzato trasferimento a Modena degli Estensi da Ferrara, non si assiste a una passiva lacerazione dello Stato, bensì alla costruzione organica di un nuovo assetto: il ducato, politicamente spostato da Ferrara a Modena, senza più sbocco al mare, con un territorio quasi enclave rispetto al precedente e con una popolazione numericamente ridotta e impreparata al controllo di una corte, induce i duchi a elaborare una forte strategia di governo e di rappresentazione del potere, da esibire anche nei confronti delle altre case regnanti, incluse quelle imperiali. Maria Beatrice d'Este fu regina consorte d'Inghilterra, di Scozia e d'Irlanda dal 1685 al 1688, in quanto moglie di Giacomo II Stuart. Nata a Modena, fu la prima e unica italiana a salire su un trono inglese. Alfonso IV d'Este (1634), figlio di Francesco I e di Maria Farnese, alla morte del padre aveva ventiquattro anni ed era sposato con la giovanissima Laura, nipote del cardinale Mazzarino. Alla sua precoce morte, la duchessa ebbe necessità di organizzare un funerale sfarzoso; l'apparato scenografico, progettato dagli architetti ducali, fece del rito l'occasione per manifestare la magnificenza del casato. La chiesa di Sant'Agostino, semplice e spoglia aula medievale, non opponeva vincoli alla messa in opera dell'allestimento. La duchessa sostenne personalmente le spese e attivò maestranze composte da un folto gruppo di pittori, stuccatori e indoratori. La quantità di legname fatta affluire in città da San Felice sul Panaro testimonia la complessità della configurazione dell'apparato, al quale misero mano numerosi operarij provenienti dal bacino bolognese e ferrarese, oltre ad abili fabbri di tradizione locale. Il nome della duchessa è riportato in un cartiglio sulla volta dell'altare maggiore. Da tale iniziativa derivò una rinnovata centralità della piazza, sebbene il sagrato sia rimasto sempre semplice, in ciottoli, come ai giorni nostri. Il trionfo decorativo avvenne all'interno: ciò che rende la chiesa di Sant'Agostino un unicum nel panorama barocco è il fatto che il grandioso apparato è un involucro indipendente rispetto all'architettura della chiesa. È il trionfo, essenzialmente e intimamente barocco, dell'apparenza: si tratta dell'unico esempio noto di riproduzione stabile di un apparato effimero. L'iscrizione sulla porta recita Pantheon Atestinum (Figura 4).
La svolta nella costruzione del piazzale avvenne con Francesco III d'Este, il quale, dopo essersi destreggiato nelle questioni dinastiche europee e aver assunto il governo della Lombardia fissando a lungo la propria dimora a Milano, promosse un cospicuo scambio culturale, favorendo la diffusione nelle terre estensi dei principi illuministici appresi in Lombardia. Egli applicò principi di prevenzione e accoglienza sociosanitaria, in cui la medicina non è più al servizio del singolo ma della comunità. Dal campo delle prescrizioni religiose e delle regole di vita si passò a un percorso scientifico utile e necessario alla popolazione. Già con Bernardino Ramazzini tali principi si affermarono oltre i confini del ducato, fino alla prestigiosa Università di Padova; a Ramazzini è oggi riconosciuto l'attributo di fondatore e padre della medicina del lavoro. Regnante per quarantatré anni, sovrano illuminato, Francesco III regolò l'urbanistica cittadina e introdusse la numerazione delle case. La sua adesione agli ideali illuministici ebbe ricadute positive sull'economia: l'incameramento dei beni ecclesiastici e il rinnovo urbanistico generarono sviluppo e occupazione. In soli diciotto anni si realizzò un largo solenne, ordinato sulla simmetria di due fabbriche. Il sito, oltre alla funzione difensiva, assunse quella celebrativa e riorganizzò l'assistenza. La piazza non possiede i requisiti, né amministrativi né commerciali, dell'agorà o del foro: essa si adegua ad accogliere funzioni assistenziali e sanitarie. Con l'avvento di Francesco III, la svolta nell'evoluzione urbana dell'area trasformò un luogo né nobile né agevole in un intervento urbano neoclassico, elegante e composto. Premesso che Modena era caratterizzata da una fitta rete di canali, che ne vincolavano la morfologia e - essendo a cielo aperto - la rendevano insalubre, a metà Settecento il duca, seguendo il pensiero del suo educatore Ludovico Antonio Muratori, conciliò in questa piazza la funzione di rappresentanza - necessaria alla capitale del Ducato d'Este e porta d'accesso alla città per delegazioni politiche, diplomatiche e militari provenienti da Milano - con la funzione assistenziale dell'Opera Pia Generale dei Poveri a sud e quella ospedaliera a nord (Figura 5).
Le architetture fronte piazza: misure e regimi d'uso
La storia della piazza non può essere disgiunta dalle facciate dei palazzi prospicienti. Il progetto dell'Albergo dei Poveri - attuale Palazzo dei Musei - è dell'architetto Pietro Termanini. La facciata è allineata a quella della chiesa di Sant'Agostino; la facciata della chiesa, alta 44 braccia e lunga 150, costituisce la matrice progettuale dell'Albergo dei Poveri. Di fronte all'Albergo dei Poveri si trova l'ospedale. Il 27 aprile 1753 lo stesso duca pose la prima pietra e, dopo cinque anni dall'inizio dei lavori, l'edificio fu in grado di accogliere gli infermi. Il progetto è attribuito ad Alfonso Torreggiani (da Budrio); essenziale fu il contributo del muratore Giuseppe Sozzi, che, in cambio del suo lavoro, fu insignito del titolo di vice architetto ducale, come si evince dal chirografo di Francesco III del 18 luglio 1754. Si ricorse a una progettualità ripetitiva, memore degli insegnamenti di Jacopo Barozzi da Vignola: elementi come gli ordini di finestre sormontate da timpani e profilate da cornici vennero reiterati a scopo ornamentale. Per contenere le spese si valorizzò l'abilità di eccellenti maestranze, utilizzando materiali poveri disponibili - il laterizio per la muratura, il ferro per cancellate e ringhiere. Le facciate, eseguite magistralmente, venivano ricoperte da un sottile strato di intonaco a protezione dal clima padano.
I fabbricati sono equivalenti nelle dimensioni. L'edificio dell'ospedale presenta linee sobrie ma eleganti, con grandi finestre disposte su tre livelli e due ampi portali semicircolari, ornati da sovrapporte in ferro battuto. La ripartizione delle finestre in moduli 5-11-5, intervallati dai portoni, scandisce un ritmo regolare sia in larghezza sia in altezza sui tre livelli. I finestroni sovrastanti i due portoni riportano il simbolo della Santa Unione, una mano benedicente. La Santa Unione era un grande ente a carattere laico. È interessante notare che, nelle cancellate interne, la mano sbalzata in ottone ha cinque dita aperte - patet omnibus - a significare che l'assistenza è aperta a tutti coloro che ne hanno bisogno.
La facciata del Palazzo dei Musei è scandita da due moduli laterali ripartiti da quattro modanature, con due ordini di grandi finestre, la cui cimasa, alternata triangolare e curva, sporge rispetto al piano di facciata. I finestrini di sottotetto presentano una cornice modanata curva di dimensioni ridotte. Grandi vasi marmorei erano collocati alla sommità dell'edificio ma, per ragioni di sicurezza, sono stati rimossi. Sono scomparse anche le aquile estensi e i gigli, che in origine presenziavano sia sulla facciata dell'Albergo sia su quella dell'ospedale. La chiesa fu restaurata nel 1835 su disegno di Giuseppe Pisani; l'unico elemento originario è il rosone. La facciata è ornata da colonne reggenti due timpani spezzati con rovesci a chiocciola, sormontati da un timpano triangolare; un rosone con soprastante timpano di ordine maggiore poggia su una leggera trabeazione che sostiene il grande frontone ricurvo a coronamento della facciata, continuità che procede nel palazzo adiacente.
Sopra la porta, nel Settecento, fu fatto erigere - su progetto di Giuseppe Maria Soli - un grandioso fabbricato concavo, adibito a casa di lavoro per i poveri e in seguito ad abitazioni per famiglie meno abbienti. L'edificio presentava una facciata simmetrica con ingresso decentrato; sul fronte verso il Palazzo dei Musei si osserva uno snellimento della massa volumetrica, accompagnato da una variazione dello spessore che consente di mantenere il prospetto su largo Aldo Moro in parallelo all'asse del viale. Il linguaggio compositivo si distingue per la capacità di acquisire il rapporto del fabbricato con l'intorno urbano. L'arco della porta di accesso, sul versante della Via Emilia, fu elegantemente decorata con un arco trionfale marmoreo ad opera di Giuseppe Pisani, scultore di corte. Di tale arco rimangono alcuni reperti, come gli stipiti e due leoni, oggi collocati all'interno del Palazzo dei Musei. Vi era anche un monumento equestre in marmo a Francesco III, abbattuto in epoca napoleonica (Figure 6-7).
L'apertura verso largo Aldo Moro
La ricostruzione storica mostra una piazza che, appoggiata alla Via Emilia e generata dalla presenza agostiniana, ha per secoli tenuto insieme funzioni prevalentemente ospedaliere e assistenziali: un'impostazione che ne ha segnato la misura, la chiusura relativa e la vocazione di servizio pubblico. La trasformazione decisiva del piazzale avvenne nel 1913 con la demolizione del fabbricato sopra Porta Sant'Agostino progettato da Giuseppe Maria Soli che venne definita come vecchia e inutile, nell'ambito del piano generale di risanamento che comportò l'abbattimento di mura, porte e bastioni per aprire Modena all'aria e alla luce. L'abbattimento della Porta ha interrotto la continuità della quinta edilizia, aprendo il fronte occidentale; parallelamente, l'assetto funzionale nel corso del Novecento si è evoluto: il Grande Albergo si è consolidato su usi civico-museali, e il Grande Ospedale ha perso nel tempo la funzione. Questa duplice trasformazione - fisica e funzionale - ha cambiato la grammatica d'uso della piazza in parcheggio (Figure 8-10).
Negli anni Novanta, pur mantenendosi il sistema storico di riferimento, il bordo occidentale rimane il punto critico. È in quel tratto che la piazza deve recuperare un dispositivo di soglia leggibile, capace di regolare l'attraversamento senza ricorsi mimetici e di dialogare con l'affaccio verso largo Aldo Moro. La piazza, nella sua configurazione pressoché invariata dopo l'abbattimento della porta non si presenta davvero aperta: la maggior parte dell'assetto del piazzale diventa sosta per le auto, l'assetto viabilistico e le interruzioni di continuità tra lo spazio pedonale, ciclistico e veicolare hanno ridotto la leggibilità del vuoto centrale e indebolito il rapporto tra i fronti. Ne deriva una riflessione operativa che alla fine del decennio crea molti dibattiti: se la storia ha garantito alla piazza continuità di identità pur nel cambio d'uso, l'oggi chiede di rimettere in coerenza forma e funzioni. Ciò significa valutare la compatibilità della sosta con la vocazione civico-culturale, ricalibrare la misura del vuoto e dei margini, e chiarire il dialogo con largo Aldo Moro come fronte aperto di un sistema.
Tracce e questioni aperte
In altre parole, la lunga durata non consegna soluzioni precostituite, ma precedenti da cui derivare nuovi presupposti operativi. Su tale base si colloca la scelta di fondo: riconoscere la piazza come stanza urbana, restituendole una soglia capace di ricomporre misura e gerarchie, come nell'assetto anteriore alla demolizione della Porta; oppure assumere la piazza come spazio apertamente permeabile, con le conseguenti implicazioni in termini di attraversamento, profondità prospettica e relazione con largo Aldo Moro. La prima ipotesi rimette al centro la nozione di limite e di sequenza, la seconda privilegia continuità e apertura; ma entrambe richiedono una chiara definizione dei margini, della scala del vuoto e dei regimi d'uso di cui l'identità morfologica è inseparabile dalle funzioni. Oggi il Palazzo dei Musei esercita una riconoscibile vocazione civico-culturale, mentre l'ex ospedale, dismesso, apre lo scenario reale di nuove funzioni pubbliche. Occorre quindi stabilire se orientare il sistema verso un dialogo strutturato tra i due fronti - con una regia unitaria dell'offerta civica e culturale - oppure verso una relazione per differenza, che mantenga identità distinte entro una cornice coordinata. La decisione ha effetti diretti sulla configurazione dello spazio: intensità e temporalità d'uso, continuità dei percorsi pedonali, modalità di attraversamento, compatibilità della sosta e capacità di carico in occasione di eventi. In questo senso, la storia del luogo - che ha saputo attivare un polo di servizio pubblico a scala cittadina - indica un criterio: la piazza funziona quando i caratteri distintivi sono messi in coerenza, e quando il rapporto con i bordi, in particolare verso largo Aldo Moro, è esplicitato e non lasciato indeterminato. Ne discende così un orizzonte di lavoro verificabile. Solo entro questa cornice è possibile orientare scelte coerenti con l'identità storica del luogo e con le esigenze del centro urbano nella sua chiave contemporanea. u
Bibliografia
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Note
1 E. Corradi, E. Garzillo, G. Polidori (a cura di), La chiesa di Sant’Agostino a Modena. Pantheon Atestinum, realizzazione editoriale Amilcare Pizzi, Fondaz. Cassa di Risparmio di Modena, Modena, Settembre 2002, pag. 41
2 P. Belloi, E. Colombini, Guida di Modena. Manuale per l’uso storico e artistico della città utile al modenese e al viaggiatore, Colombini editore, Modena, 2003, pag. 135.
3 G. Panini, Porta Sant’Agostino e dintorni, Ediz. Armo, Modena, 1993, pag.13