Il filo diamantato e la sua protezione

Esegesi di un'invenzione che rivoluzionò le tecniche di taglio delle pietre ornamentali

Nel campo delle pietre ornamentali la tecnologia estrattiva e di lavorazione ha seguito un percorso che, partendo da alcune migliaia di anni fa, si è venuta via via perfezionando, raggiungendo ultimamente un livello che, fino a un secolo fa o poco più, non era assolutamente immaginabile.
Una delle prime soluzioni tecniche studiate dai cavatori di allora fu il distacco di blocchi dal giacimento sfruttando la capacità che possiede il legno di gonfiarsi, quando è imbibito di acqua. Infatti, i cavatori di Luni, al confine fra la Toscana e la Liguria, per esempio, attaccavano i depositi di marmo delle vicine Alpi Apuane, compiendo una serie di fori o di tagli, allineati, all'interno dei quali conficcavano pioli di legno, che poi venivano copiosamente annaffiati. Il legno s'ingrossava, esercitando fortissime pressioni nella cavità dei vuoti, sino a provocare la spaccatura lungo la serie di pioli, poiché qui le sollecitazioni incontravano la resistenza minore.

Questo fu l'unico metodo veramente valido fino all'introduzione di due nuove tecnologie, enormemente dissimili, ma tali da garantire, da parte di entrambe, il conseguimento del distacco di masse lapidee dal monte.
La prima si basava sull'uso dell'esplosivo che serviva, più che a staccare blocchi dal monte, ad abbattere volumi anche enormi di roccia (realizzando le cosiddette "varate") dai quali, successivamente, si separavano i blocchi da portare a dimensioni carrabili e posizionabili sui telai dei laboratori di trasformazione. Considerate le difficoltà oggettive di calcolare le giuste quantità di esplosivo da impiegare, non tanto per la natura della roccia, quanto per la non precisa conoscenza delle caratteristiche del giacimento indisturbato (fratture, faglie, "finimenti", ecc.), era valido il detto melius est abundare quam deficere, e pertanto, era abituale la propensione a stare poco o tanto abbondanti sulla quantità calcolata; così molto spesso le vibrazioni indotte dallo scoppio intaccavano anche l'integrità delle adiacenti frazioni di roccia perfettamente sana, compromettendone parzialmente o totalmente l'utilizzo futuro.

Un procedimento di fendere la roccia s'individuò, a seguito dell'invenzione della miccia detonante che è fatta scoppiare dentro una serie di fori ben allineati, che rappresentano la traccia della linea di rottura prevista. Del resto, questo è, tuttora, uno dei metodi, messi in opera nella coltivazione del granito nell'Isola d'Elba e in Sardegna. Si può pure per inciso aggiungere che la miccia detonante è una dei modi d'impiego nello spostamento di blocchi dove, come in galleria o in cave a pozzo, lo spazio è tiranno.
Un vero avanzamento, un autoritario ingresso nel mondo del futuro, fu rappresentato dalla seconda tecnologia, cioè dall'invenzione del filo elicoidale (chiuso ad anello e fatto funzionare da un motore elettrico), che, sfruttando l'energia meccanica che l'uomo già da qualche tempo aveva a disposizione, diede un impulso straordinario alla possibilità di usare le pietre ornamentali, e naturalmente non solo quelle, nel settore delle costruzioni e delle realizzazioni architettoniche e scultorie. Fu veramente un passo da gigante in avanti, sia per quanto riguarda la qualità sia per quanto si riferisce alla qualità del materiale semifinito o finito ricavabile.

Il taglio in cava e nei suoi cantieri era attuato facendo scorrere il filo, costituito da alcuni fili di acciaio attorti a spirale, sulla roccia, sulla quale era fortemente compresso. Il pezzo di roccia da tagliare era investito da un getto d'acqua mista a sabbia silicea. Il filo aveva la funzione di elemento trainante della sabbia la quale, per mezzo dei suoi durissimi e affilati spigoli, erodeva il materiale lapideo, tagliandolo. L'acqua fungeva da mezzo di lubrificazione e di raffreddamento del filo e, inoltre, di lavaggio del taglio dalla presenza della segatura di marmo mista ad acqua (in altre parole, della "marmettola").
Il sistema del filo elicoidale, tuttavia, era molto complesso, poiché, a causa del logoramento per usura contro la sabbia silicea che subiva il filo, era necessario rinnovarlo alquanto frequentemente. Per questo, al fine di ridurne il consumo e per prolungarne la durata nel tempo, si tendeva a costruire l'anello il più lungo possibile, sfruttandolo per eseguire più tagli nello stesso tempo. Per esempio, mentre si faceva un lungo taglio al monte, si faceva passare il filo dietro uno sperone roccioso inutilizzabile da abbattere, perché disturbava i lavori di cantiere e, magari, si tagliava una parte sporgente da un blocco informe. Per evitare che il filo restasse troppo lento, per cui non sarebbe stato in grado di fornire nessun effetto tagliante sulla roccia, questo era fatto passare nella gola di una carrucola folle montata su un pesante carrello scorrevole su rotaie poste in pendenza, in modo che il suo peso fornisse al filo la tensione indispensabile a garantire la pressione necessaria per erodere la roccia al fine di produrre il taglio o i tagli in progetto.

Da focalizzare che un miglioramento storico nel taglio con il filo elicoidale si deve all'introduzione della "Puleggia Monticolo", dal nome del suo ideatore, che non era altro che una ruota folle che aveva - e qui sta l'importanza dell'invenzione - il pregio di essere più sottile del diametro del filo, per cui consentiva il suo ingresso fra le pareti del taglio, eliminando l'esigenza di più passaggi per effettuare il distacco delle parti di roccia richiesto.
Come ben si sa, comunque, ogni traguardo raggiunto non è mai ne definitivo ne insuperabile, perché c'è sempre qualcuno che riesce a fare un passo in avanti, provando teorie e materiali nuovi e, se tutto si svolge al meglio, imponendo le novità del caso. Infatti, negli anni settanta del secolo ventesimo, quel qualcuno valutò la possibilità di migliorare ulteriormente la tecnica del taglio delle pietre ornamentali, pervenendo, dopo prove, fallimenti ed entusiasmanti esiti positivi, all'ideazione prima, alla costruzione successivamente del filo diamantato, che ridusse i tempi di taglio in maniera esponenziale.

Già era in atto un'altra tecnologia: quella del taglio con la catena diamantata, con tutti i suoi pregi e difetti, adattissima al distacco di blocchi dalle bancate di cava delle dimensioni desiderate. Il taglio della roccia con tale tipo di utensile, tuttavia, è legato all'esigenza che, per lubrificarlo e raffreddarlo necessita, oltre che di acqua, anche di olio minerale, che ha il difetto di inquinare la marmettola, di cui si è detto; pertanto essa non può essere recuperata e riciclata per impieghi anche molto importanti, bensì deve essere conferita a discariche autorizzate per rifiuti non pericolosi. Naturalmente, ciò comporta una duplice penalità economica: da un lato si ha la perdita del guadagno nel recupero, mentre dall'altro ci sono le spese da affrontare per il trasporto e per la consegna in discarica.
Un miglioramento di natura ecologica si ebbe con la progettazione di una cinghia diamantata, che ha il pregio, come il filo diamantato di richiedere solo l'uso di acqua pura, senza l'aggiunta di olio minerale.
Comunque, la scelta fra l'una e l'altra delle due soluzioni - per quanto a conoscenza del redattore della presente nota - ha avuto sinora un esito incerto e continuano gli scambi di vedute fra i sostenitori delle parti opposte.

C'è da dire, tuttavia, che l'impiego della catena o della cinghia diamantate non sia tale da risolvere tutti i possibili problemi di taglio della roccia: in verità, le profondità di taglio sono legate alla lunghezza del braccio porta utensile, che non può essere più lungo di 8,5 metri, mentre le macchine che lo montano, pesanti per avere stabilità e per opporsi alle vibrazioni indotte dal duro lavoro di abrasione esercitato sulla pietra dagli elementi taglianti, devono obbligatoriamente muoversi su guide. E il massimo della resa si raggiunge soltanto quando esse sono sistemate lungo il fronte di cava, dal quale estraggono la massima quantità di blocchi, limitando gli spostamenti al percorso parallelo allo stesso.
Queste limitazioni, al contrario, non sussistono con il filo diamantato (a onor del vero, non esistevano nemmeno con il filo elicoidale) che, per funzionare ha bisogno di macchinette elettriche di non elevatissimo peso, facilmente spostabili con l'uso di una pala meccanica, alla cui benna si appendono, e prontamente installabili ovunque se ne richieda il bisogno.
L'uso del filo diamantato, in concreto, può dare i risultati offerti dalle macchine a catena o a cinghie diamantate, ma, data la sua versatilità, può eseguire lavori che a queste sono preclusi per impossibilità o per difficoltà oggettive di sfruttamento delle stesse, quali tagli molto lunghi e profondi al monte, frazionamento di blocchi in cantiere, ecc.

Dal punto di vista costruttivo, il filo diamantato è costituito da un cavetto di cinque millimetri di diametro, sul quale sono infilate, come elementi di una collana, successioni di oggetti a forme diverse (distanziatori, molle, perline diamantate; si usano dalle trenta alle quaranta perline per metro). I distanziatori sono fissati sul cavetto e fra questi sono inserite le molle, che tengono elasticamente bloccate le perline. Queste ultime, che sono costituite da materiale durissimo in cui sono annegati frammenti di materiale veramente duro (diamanti industriali o altro), sono lasciate libere di ruotare sul cavetto, in modo tale che il logoramento per abrasione avvenga con continuità, evitando che si ovalizzino. Le perline possono essere ottenute per sinterizzazione o per elettrodeposizione: le prime, stando alle prove ripetute eseguite su campioni, costano di meno e durano di più. La loro funzione è semplice: per l'usura del metallo che li contiene, sono esposti sempre nuovi elementi taglianti, che si sostituiscono a quelli erosi.
Dopo aver calcolato la lunghezza da dare al filo per eseguire un certo lavoro (perciò non come con le macchine a catena o a cinghia diamantate, per le quali la profondità di taglio raggiunge un massimo non superabile), lo si chiude ad anello, fissandone le estremità con dispositivi fissati dinamometricamente in maniera tale che, qualora si verifichi un cedimento, possibilmente questo avvenga nella giunzione e non in punto qualsiasi del filo stesso.

L'uso del filo diamantato, realmente iniziato senza che ne fossero fissate le norme, soprattutto in merito alle condizioni di sicurezza dei cavatori, era fatto a livello di scrupolo o di disinvoltura personali. Tale situazione era dovuta anche al fatto che era un sistema di taglio nato in sordina e unicamente le sue interessanti prestazioni ne avevano sancito l'ingresso nelle attività estrattive autoritariamente, a pieno titolo, dove si era magnificamente inserito. D'altra parte, come si è detto, le prestazioni si dimostrarono a tal punto soddisfacenti, che il filo elicoidale fu messo prontamente in pensionamento.

Disgraziatamente, però, come in tutte quelle attività umane nelle quali l'esperienza faccia difetto, le pecche nascono a ogni piè sospinto e sono sovente abbinate a gravi o tragiche conseguenze.
Le rotture del filo diamantato cominciarono ad accadere. Esse erano da addebitare a certuni fattori, ma sempre connessi a un suo cattivo o errato o disattento uso: trazione esagerata del filo, con superamento del suo carico di rottura; usura troppo prolungata, che implica il consumo e la riduzione del diametro del cavetto con rottura per strizione.
S'iniziò con qualche fatto isolato e poi, in un breve periodo, i casi si moltiplicarono: accadevano incidenti in cui le ferite riportate dai cavatori si rivelavano incomprensibili ai sanitari che le medicavano, giacché non conciliabili con la meccanica di accadimento dell'infortunio segnalato dal personale di cava (direttore e cavatori) o dal datore di lavoro. In conseguenza di ciò, anche il riconoscimento dell'indennizzo da parte dell'INAIL diveniva un tantino arduo.
In definitiva, però, si trattava dei "segreti di Pulcinella", e alla fine si scoprì che le cause di certi incidenti erano da attribuire al qualche cosa di nuovo e di diverso dal solito. Capitava che avvenissero infortuni che erano contrabbandati per una certa forma di accadimento, ma il colpevole, spesso, era proprio il nuovo nato, cioè il filo diamantato.
Il filo diamantato, dunque, non era non pericoloso, tutt'altro, per cui era una tecnologia da tenere sotto attento controllo, perché, quando il filo si rompeva, diveniva il responsabile di lancio di oggetti a elevatissima velocità, aventi grande capacità di penetrazione in tutto ciò che incappavano nella loro traiettoria e, a maggior ragione, nei tessuti umani.
Ognuno diceva la sua, le opinioni divennero sempre più contrastanti e ci si rese conto che la nuova tecnologia, oltre a tutti i lati positivi che mostrava, costituiva pure un grosso rischio per l'incolumità dei cavatori addetti ai tagli e dei colleghi che esercitavano altre mansioni nei dintorni, nel caso accadesse una rottura del filo. Difatti, in tal caso, gli elementi infilati nel cavetto metallico dal punto di rottura ai primi distanziatori, a causa del colpo di frusta che questo subiva srotolandosi sulla puleggia motrice della macchinetta, erano lanciati lontano a velocità elevatissima, come veri e propri proiettili di armi da fuoco.

A questo punto, le prime norme di precauzione e di sicurezza impartite dall'estensore di questa nota (che, oltre a ricoprire l'incarico di direttore dell'UOIM - Unità Operativa di Ingegneria Mineraria - allora era anche responsabile dello SPISLL - Servizio di Prevenzione, Igiene e Salute nei Luoghi di Lavoro -  e del Dipartimento della Prevenzione dell'ASL di Massa Carrara), furono di posizionare le centraline di comando delle macchinette a filo diamantato in modo defilato nei confronti del piano di taglio e di impedire movimenti del personale che interferissero con lo stesso, sì da evitare che venissero a trovarsi sulla traiettoria di eventuali, indesiderati lanci di oggetti.
Ciò non fu sufficiente, malauguratamente: gli infortuni, in parte gravi, si moltiplicarono (così come si accrebbe la diffusione del nuovo metodo di taglio), per cui logicamente s'iniziò a pensare a come porre rimedio all'espansione d'incidenti, anche e soprattutto perché si dimostrava inconcepibile il mettere al bando questa tecnologia tanto innovativa quanto economicamente valida.
Furono queste considerazioni che stimolarono un gruppo d'industriali della Provincia di Massa Carrara produttori di beni diversi, ma sempre e comunque congiunti alla coltivazione e alla trasformazione del marmo, a consorziarsi (d'accordo con gli enti locali, ASL, comune ecc. e  Regione Toscana) al fine di studiare, progettare e costruire insieme un dispositivo che garantisse un'efficace difesa dei cavatori contro la possibile gragnola di proiettili metallici vari provenienti dal filo diamantato spezzato.  
A seguito di questa decisione, consorzio di costruttori, cooperative di cavatori, cavatori isolati, funzionati dell'ASL e del comune e tecnici vari cominciarono a riunirsi e a programmare prove per stabilire quali fossero realmente i pericoli collegati all'uso del filo diamantato e, in base ai risultati ottenuti, per trovare soluzioni atte a porvi rimedio. Le ditte che sostennero e parteciparono al progetto furono, in ordine alfabetico, Bernucci Mario, Benetti Macchine, Dazzini Macchine, Diamond Pauber, Lochtmans Gianfranco, Micheletti Macchine. Pertanto, furono organizzate in cava sperimentazioni adatte, basate sulla rottura pilotata del filo diamantato, mettendo verticalmente, in corrispondenza della potenziale traiettoria degli elementi mobili sparati dal colpo di frusta, uno schermo in lamiera metallica alto circa 3 metri e lungo 4 metri, rivestito di fogli di carta aventi la funzione di comportarsi come i bersagli dei tiri a segno, contro il quale essi potessero andare a spiaccicarsi. Per avere tranquillità sui dati rilevati, le prove furono molteplici, in diverse cave e in diverse condizioni ambientali, ma i risultati furono sempre a senso unico: i proiettili, lanciati a una velocità di circa 200 m/sec, formavano a una distanza non troppo elevata una "rosa", alla stessa maniera dei pallini sparati dalle cartucce dei fucili da caccia.
Queste considerazioni impressionarono non poco chi assisteva alle prove, perché questi dimostrarono che anche il trovarsi non molto defilati nei confronti del piano di lavoro del filo diamantato non poteva essere sufficiente a garantire l'incolumità degli operatori delle centraline e di chi passava lateralmente alla zona di lavoro.

Le prove eseguite hanno indotto alla conclusione che le precauzioni usate sino ad allora non erano tali da assicurare la sicurezza dei lavoratori, per cui si iniziò a studiare, progettare e costruire prototipi, finché non si giunse a questa soluzione che sembrò ottimale: la protezione doveva essere costituita da un nastro, arrotolato su un rullo fissato sulla parte superiore della macchinetta, composto da un materiale flessibile (quindi a base di gomma), abbastanza spesso da resistere alla potenziale penetrazione da parte dei proiettili, largo almeno mezzo metro e da stendere sopra il filo, a una distanza non superiore al mezzo metro dallo stesso, steso in modo da ricoprirlo lungo tutto il suo percorso a cielo aperto. In concreto, la protezione doveva ricoprire tutto l'anello del filo diamantato, da terra dietro la macchinetta, sino a terra dietro il blocco in fase di taglio o sino contro il monte, se di questa lavorazione si trattava.

Tutte le prove di collaudo, compiute sempre con rottura pilotata del filo diamantato, diedero i risultati che ci si aspettavano: gli oggetti sparati, contati in partenza, erano tutti regolarmente trovati a terra lungo il percorso del filo.
L'estensore della presente nota, nel suo ruolo di responsabile dello SPISLL, provvide alla redazione dello strumento in base al quale, nell'ambito del territorio di competenza dell'ASL di Massa Carrara, non ci dovevano essere lavorazioni con il filo diamantato senza protezione; per cui, le macchinette nuove dovevano esserne fornite, mentre le vecchie dovevano adeguarsi all'ordinanza emanata, pena pesanti sanzioni.
La notizia fu resa pubblica in un trafiletto pubblicato sul quotidiano "Il Tirreno" del 1° aprile 1996, nel quale si comunicava che si era raggiunto un accordo condiviso, che la protezione poteva essere messa sul mercato del settore, che il giorno successivo sarebbe stata presentata a tutti gli interessati nelle sale di rappresentanza del Comune di Carrara dal Presidente del Consorzio, alla presenza di tutti i suoi componenti  e dei rappresentanti degli enti locali con il coinvolgimento della Regione Toscana.
L'uso della protezione si diffuse a macchia d'olio e la situazione da allora è certamente migliorata, con taglio deciso dell'accadimento degli infortuni addebitabili al filo diamantato. Di solito si può affermare che gli incidenti di questo tipo sono da attribuire, più che all'imperizia, alla sbadataggine e alla leggerezza dei cavatori.
Comunque sia, la protezione del filo diamantato ha messo d'accordo anche tutti gli utenti di questa meravigliosa e rivoluzionaria tecnologia, poiché invero si tratta di una spesa aggiuntiva, che però diventa impagabile, quando si vada a pensare all'incolumità fisica dei lavoratori.

Ora, la tecnica costruttiva del filo diamantato, che non tutti hanno abbracciato, continuando a usare i distanziali a molla come al tempo dell'invenzione, e che si sta rapidamente espandendo, anche perché ritenuta essenziale quando le rocce sono molto dure, consiste nella plastificazione, cioè nell'iniezione di materiale sintetico a caldo. Questa soluzione rappresenta un punto a vantaggio della sicurezza degli operatori, che comunque devono sempre essere protetti dai dispositivi di sicurezza di cui si è detto più sopra, ma non lo rappresenta per quel che riguarda la modalità di taglio e perciò della sua qualità. In effetti, il detrito abrasivo risultante dal taglio può insinuarsi fra perlina e cavetto, determinando la perdita di rotondità della prima ed erosione del secondo, danni che, oltre che offrire risultati piuttosto scadenti, accorcia la durata del filo. Inoltre, la temperatura rappresenta un danno per il materiale, per cui occorre un'attenta sorveglianza al fine di fornire l'acqua necessaria sia per il raffreddamento, sia per la lubrificazione degli elementi taglianti.
Per proporre l'importanza tecnologica raggiunta, si può ricordare che il filo diamantato non si limita a essere utilizzato per tagliare il marmo, perché anche il granito e altre pietre ornamentali possono subire lo stesso trattamento, con gli adatti aggiustamenti. Non solo: può essere usato per tagliare verticalmente edifici, al fine di evitare che vi sia trasmissione da una parte all'altra di vibrazioni di rumori. Pure il cemento armato e l'acciaio possono essere aggrediti da quest'utensile. Ciò che maggiormente colpisce, tuttavia, è la notizia secondo la quale a Capo Hatteras negli USA un faro, alto 64 metri, pesante 4830 tonnellate, è stato tagliato alla base con il filo diamantato e spostato di 900 metri in 23 giorni per una spesa di 23 miliardi delle vecchie lire (un miliardo al giorno)!