Ricuciture del tessuto urbano

L’esempio della piazza per l’Economist di Londra

L'idea della città compatta appare oggi, più che un modello, una improrogabile necessità, una condizione di partenza per poter ragionare sull'organismo urbano contemporaneo. Tuttavia è l'estensione il carattere che più lo distingue allo stato attuale: l'esempio della città diffusa non è più praticabile a causa della sua insostenibilità in termini ecologici ed economici. Questo fenomeno ha generato una dispersione della forma urbana, a cui è conseguito un consumo di suolo incontrollato e una qualità dello spazio pubblico del tutto rivedibili, oltre ad aver causato, negli ultimi trent'anni, una complessiva disorganicità nella struttura urbana, agevolato da piani strutturali vigenti e politiche di governo del territorio del tutto imprevidenti. L'assenza di una forma definita e descrivibile genera una immagine della città che si sparge senza nessuna regola apparente, artificializzando irragionevolmente tutto l'ambiente naturale in un insieme di frammenti diffusi in un territorio che in passato è stato terra coltivata dall'uomo e, ancor più indietro, paesaggio incontaminato. Proseguendo per decenni, la speculazione edilizia ha prodotto appendici urbane slegate e prive di rapporto con le preesistenze, trascurando la storia e le specificità dei luoghi.
La città, oggi, è caratterizzata da spazi, racchiusi tra il costruito, privi di qualità o più spesso spazi di risulta che si riflettono su di una diffusa disorganicità della struttura urbana, prodotta da piani e politiche di governo del territorio del tutto imprevidenti. Per questi motivi, il futuro dell'architettura dipende dalla sua capacità di essere trasformata, ritrovando un'identità all'interno di parti della città, attraverso dinamiche comunitarie che interpretino il patrimonio esistente, grazie a processi di densificazione del costruito che tengano in considerazione il complesso di valori e significati, di memorie e stratificazioni culturali che appartengono ad un luogo e che l'architettura riusa come materiali della sua costruzione. L'architettura della città si trova nelle condizioni di ridefinizione delle sue finalità a partire da una rigenerazione in grado di ristabilire equilibrio tra pieni e vuoti, alla ricerca di spazi pubblici che per la loro capacità di inserirsi nel tessuto siano in grado di riconnetterlo, producendo operazioni di messa in scena della quotidianità che coinvolgono principalmente due questioni: il limite da porre alla delirante espansione urbana e la trasformazione del costruito.
La produzione architettonica del Dopoguerra ha prodotto una ricerca di una pratica dell'architettura secondo nuovi principi, a partire da un forte ripensamento dei mezzi e delle finalità dell'architettura stessa, promuovendo modelli insediativi intorno all'identificazione di una comunità e ricostruendo un'identità perduta dopo la Seconda Guerra Mondiale. Recuperare alcune di quelle esperienze potrebbe essere utile per ritrovare spunti di riflessione per gestire la complessità della città contemporanea, che non si ritrova a ricostruire fisicamente nuove parti di città, ma nelle condizioni di riscrivere un nuovo tessuto urbano a partire dalle sue potenzialità sociali.

L'Inghilterra del Dopoguerra. Nei paesi britannici, dove si sviluppò una sorta di esprit noveau, la questione della ricostruzione postbellica si definì in maniera differente rispetto ad altre realtà europee.
L'Inghilterra fu una vincitrice della guerra, ma in termini economici pagò a caro prezzo le conseguenze che il conflitto aveva imposto, dal momento che si trovò costretta ad affrontare un lungo periodo di inflessibilità economica imposto dal programma di austerità. Anche lo stato d'animo generale si trovava ad un minimo storico, ma gli effetti drammatici della guerra causarono anche una sorta di desiderio di rivalsa, con l'opportunità di creare una società ripulita e rinnovata. C'era la sensazione di essere arrivati ad una situazione cruciale: le giovani generazioni sentivano il dovere di impadronirsi della ricostruzione, risollevando la condizione generale, grazie a nuovi piani per il futuro.
Il dibattito architettonico londinese vedeva schierate due fazioni: la prima formata dalle giovani generazioni, a cui la guerra aveva prolungato e ritardato gli studi, la seconda composta da architetti già formati, sostenitori delle idee di William Morris.
I due raggruppamenti opponevano registri linguistici e riferimenti differenti: i più giovani ritenevano che gli oppositori stavano tradendo i precetti del Modernismo continentale, il cui sviluppo era stato solo rallentato dalla guerra. Si stava diffondendo un modo di operare sostanzialmente sistemico: i macrotemi scelti erano basati sulla rilettura del Modernismo, secondo la chiave tecnologica indicata da Banham e sui cambiamenti sociali, in un clima di apparente anarchia culturale. Ad esse appartenevano Cedric Price, Alison e Peter Smithson, James Sterling e gli Archigram, solo per citarne alcuni.
Alison e Peter Smithson1 proposero una ricerca basata su una sintesi tra locale e internazionale, tra antico e moderno, rompendo con la sempre più restrittiva schiavitù a formule ereditate.
La coppia, che condivideva una sodalizio professionale fin dai tempi dell'università, apparteneva all'Indipendent Group, assieme a Nigel Henderson e Eduardo Paolozzi: avevano in comune un interesse per l'osservazione delle dinamiche sociali - influenzati particolarmente dagli studi fotografici della vita di strada della London East End di Nigel Henderson - e per un'estetica dell'ordinario, cosidetta as found2.
Il gruppo curò la mostra Parallel of Life and Art3, che aveva l'intenzione di evidenziare un nuovo atteggiamento e sottolineare l'originale sensibilità neobrutalista, che Reyner Banham avrebbe poi esposto nel dicembre del 1955 su un numero di Architectural Review4.
L'acquisizione di un pluralismo linguistico comunicante e l'accettazione di un mondo illimitato di forme venne criticato da un gran numero di studiosi, tra cui Manfredo Tafuri che definì il pensiero dell'Indipendent Group una critica operativa onde sottovalutarne il portato storiografico:
«Si tratta, del resto, di un clima generalizzato nell'Inghilterra del dopoguerra e che ha al suo attivo le inquietudini dell'angry generation: il teatro di Osborne ne è solo una testimonianza di punta. Le foto di Henderson riprendono con accorata partecipazione gli alloggi Bye-Low della classe operaia londinese, mentre le ricerche Pre-Pop di Paolozzi tendono al medesimo recupero di vitalità delle forme: il vecchio tema delle avanguardie storiche - la relazione fra lo spazio dell'esistenza e la pregnanza dell'esperienza vissuta - viene recuperato da una cultura, come quella inglese, che aveva nel complesso mostrato un notevole disinteresse per esso. Il nuovo problema piuttosto è come plasmare un ambiente che sappia suggerire e stimolare un uso sociale di tale postulata simbiosi tra forme e vitalismo esistenziale, senza ignorare la ricchezza insita nelle nuove tecnologie e in un'esplorazione del nuovo immaginario creato dalla variabilità, dalla mutevolezza, dalla casualità metropolitane»5.
Il dibattito sul neobrutalismo continuò per tutti gli anni Cinquanta: l'avamposto principale fu la Architectural Association, dove Peter Smithson insegnò per 5 anni a partire dal 1955 e in cui dichiarò di aver riorganizzato alcuni concetti, da cui emergeva la nozione di contesto - «somewhat resistant to fashion and with a developing sensibility about place»6 - che divenne la premessa elementare di tutti i successivi progetti.

Il progetto. Particolarmente significativo è l'esempio del progetto per la nuova sede del giornale The Economist (1959-1964), rappresentativo di un nuovo modo di fare città e comunità, attraverso forme convenzionali trasfigurate per mezzo di lievi scarti, spostamenti e distorsioni dettate da condizioni topologiche. Infatti il successo del progetto consiste nell'aver risposto con sensibilità al contesto - nuova preoccupazione degli Smithson e motivazione per cui venne considerato negativamente, colpevole di aver smentito alcuni principi del neobrutalismo7 - in termini di morfologia urbana: lo schema rompe con la tradizione londinese dei closed blocks e può essere considerato precursore di altri complessi per uffici come, per esempio, il Broadgate. Il progetto suscitò numerosi consensi, grazie all'approccio sensibile e rivolto, oltre che al contesto, alla figura umana, secondo un funzionalismo debitore dei modelli scandinavi. La novità era rappresentata dalla compresenza di civiltà e umanità8, qualità e caratteri che attestano una maturazione rispetto al più precoce progetto per la scuola di Hustanton9.
Tra i sostenitori, Kenneth Frampton scrisse:
«The Economist cluster is a work of studied restraint. It may offer a radical vision of a new community structure, but it does so upon the basis of an ancient Greek acropolis plan, and in maintaining the scale and governing lines of tradition-bound St James' Street, on which it stands, it handles the street idea very tenderly indeed [...] It could be argued that the Economist where legitimately looks to the future where it incorporates successfully industrialised products and processes and conversely that it legitimately looks to the past in the classicism of its simple geometric order»10.
È un esempio capace di approfondire il dialogo tra individuo e città, nella tensione tra singolo e ambiente costruito: emerge la necessità di uno studio che affronti la tanto dibattuta questione della human scale insieme al disegno della città.
Il progetto mette in scena un adeguamento moderno dell'edificio a torre alle peculiarità di un luogo: ricrea una condizione urbana, instaura relazioni specifiche tra lo spazio aperto del chiostro e la città, attraverso una serie di figurazioni urbane in cui lo spazio si mantiene aperto a molteplici possibilità di interazione, tramite una rete relazionale aperta, estroversa e mutevole, merito della compresenza delle diverse attività ospitate - residenziale, commerciale e lavorativa - che richiamano soggetti diversi ad orari diversi.
Il portico possiede un ruolo importante per definire l'intervento, che si compone di lievi variazioni: nella misura delle campate, nella loro profondità, nelle soluzioni degli angoli, nelle inclinazioni, nelle giaciture, tutti elementi che contribuiscono all'effetto di una manipolazione spaziale, con chiare implicazioni del Rinascimento italiano.
St. James Street inscena un nucleo urbano costituito come una città nella città, con numerosi rimandi al progetto per Berlin Haupstad11, di cui sembra una applicazione parziale12.
È lo stesso Kenneth Frampton a suggerire la lettura di un impianto ripetibile, vedendo l'Economist come un frammento di un disegno urbano estendibile e ripetibile, rispettoso dei caratteri della tradizione e che propone il concetto di network, molto caro alla coppia13.
Il progetto è rappresentativo delle diverse correnti architettoniche e del dibattito inglese dell'epoca, caratterizzato dallo studio di una domesticità dell'architettura, riguardante tanto la struttura dello spazio quanto l'uso di forme architettoniche ereditate dalla tradizione, riconoscibile soprattutto laddove il riferimento classico rimane evidente14.
La piazza per l'Economist descrive l'attualità di un atteggiamento verso la città e i luoghi con cui il progetto si confronta, che non assume il contesto come un'idea da riformare, quanto piuttosto una costruzione nel tempo da interpretare e da continuare.
L'attualità dell'atteggiamento si dimostra anche nel tentativo di ripartire dalla città costruita; il vuoto centrale è uno spazio resiliente15 in grado di adeguarsi ai nuovi stili di vita, che restituisce una trama culturale nuova e che concretizza l'attualità delle trasformazioni e dei bisogni sociali, per fornire alla città scenari urbani rinnovati. Il progetto architettonico interviene per trasformare l'ambiente urbano, con l'obiettivo di costruire un nuovo stato di equilibrio tra parti diverse, attraverso connessioni urbane che creano una rete di polarità alle diverse scale e spazi che permettono relazioni tra persone.

NOTE
1 Alison Smithson (1928 – 1993), Peter Smithson (1923 – 2003).
2 A. Smithson, Anni di fermento: l’Indipendent Group neglia anni Cinquanta, in «Zodiac» n.16, Settembre-Febbraio 1996, pp. 76-81.
3 Tenuta all’ Institute of Contemporary Art nel 1953.
4  R. Banham, The New Brutalism, in ‹‹Architectural Review››, 1955, pp. 355-62.
5 M. Tafuri, F. Dal Co, Architettura Contemporanea, Electa, Milano, 2005, p. 332.
6 P. Smithson, The slow growth of another sensibility: Architecture as Townbuilding, in J. Gowan (a cura di), A continuing experiment: learning and teaching at The Architectural Association, The Architectural Press, Londra, 1975, p.58.
7 L’atteggiamento revisionistico degli Smithson e il progetto per l’Economist suscitarono severe critiche da parte di Banham, che non aveva apprezzato l’apertura verso un classicismo sostenuto da Rudolf Wittkower in Architectural Principles in the Age of Humanism e il mancato riscontro del principio as found.
8 L’uomo è inserito all’interno di una concezione ampia che spazia dalla città alla messa in scena di un luogo domestico, dove l’essenza stessa del progetto è l’idea di strutturare e formare uno spazio per l’uomo.
9 Hustanton Secondary Modern School, 1949-1954, è considerato l’edificio-manifesto della corrente neobrutalista.
10 K. Frampton, The Economist and the Haupstadt, in «Architectural Design», Febbraio 1965, p.62.
11 Berlin Haupstadt (1957-1958) è il progetto per Berlino Capitale, concorso internazionale di idee per la ricostruzione del centro della città distrutto dalla guerra.
12 Tra gli elementi comuni ai due progetti: figurazione di una città su più livelli (piattaforme sopraelevate per pedoni e percorsi esistenti per veicoli); uso della tipologia a torre per conferire verticalità e fornire accessi agli edifici su più livelli; uso dell’angolo smussato, scelta linguistica non convenzionale per quel periodo.
13 K. Frampton, The Economist and the Haupstadt, in «Architectural Design», Febbraio 1965.
14  N. Pevsner, The Englishness of the English Art, Penguin Books, London, 1988.
15 J. Da Silva, City resilience index. Understanding and measuring city resilience, Ove Arup, Londra, 2013.

 

BIBLIOGRAFIA
- C. Aymonino, Lo studio dei fenomeni urbani, Officina Edizioni, Roma, 1977.
- R. Banham, The New Brutalism, in ‹‹Architectural Review››, 1955.
- M. Biraghi (a cura di), G. Damiani (a cura di), Le parole dell'architettura: un'antologia di testi teorici e critici: 1945 - 2000, Einaudi, Torino, 2009.
- W. J. Curtis, L'architettura moderna dal 1900, Phaidon, Londra, 2006.
- J. Da Silva, City resilience index. Understanding and measuring city resilience, Ove Arup, Londra, 2013.
- K. Frampton, The Economist and the Haupstadt, in «Architectural Design», 1965.
- K. Frampton, Storia dell'architettura moderna, Zanichelli, Bologna, 1986.
- J. Gowan (a cura di), A continuing experiment: learning and teaching at The Architectural Association, The Architectural Press, Londra, 1975.
- N. Pevsner, The Englishness of the English Art, Penguin Books, London, 1988.
- A. Smithson, P. Smithson, Ordinariness and Light, Faber&Faber, Londra, 1970.
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- A. Smithson, P. Smithson, The charged void: Urbanism, Monacelli Press, New York, 2005.
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- A. Smithson, Anni di fermento: l'Indipendent Group neglia anni Cinquanta, in «Zodiac» n.16, 1996.
- S. Smithson, A. Smithson, Alison and Peter Smithson: The Space Between, Verlag Buchhandlung Walther König, Colonia, 2016.
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