Cittá nude: studio critico del modello internazionale di campo per rifugiati

L'articolo a seguire riassume parte di una tesi Magistrale presentata alla Faculdade de Arquitectura da Universidade do Porto, Portogallo, sotto la supervisione del professor Álvaro Domingues. L'oggetto di studio è il modello di campo per rifugiati, unico e riconoscibile, applicato nel Global South: dai concetti che vi sono alla base alla sua nascita ed evoluzione nel corso del tempo, con particolare attenzione per le dinamiche sociali e spaziali che inevitabilmente genera uno spazio d'eccezione.

Premessa
La progettazione di campi per rifugiati rappresenta una forma estrema della pratica architettonica. Nonostante il numero crescente di persone costrette a vivere in questo tipo di strutture, lo stato dell'arte non ha subito sostanziali modifiche negli ultimi decenni e i principi, le teorie e le tecniche applicati nell'ambito sono rimasti immutati, con gli unici progressi concentrati nella costruzione delle singole unità abitative.
Tra i numerosi fattori che influenzano un tema tanto complesso, è necessario sottolineare come lo spostamento di rifugiati sia una questione largamente politica. Attraversando frontiere geopolitiche, i rifugiati rinunciano ai diritti di cittadinanza dati dall'appartenenza alla nazione di origine, in cambio di una salvezza basata sui termini stabiliti dagli Host Governments - i Governi ospiti - e dalle agenzie umanitarie.
Rifugiati, Host Governments e organizzazioni non governative rappresentano di fatto i principali attori nella risposta all'emergenza, con l'UNHCR, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, come più autorevole delle agenzie umanitarie. Queste, quasi esclusivamente dipendenti da finanziamenti esterni, vengono a trovarsi in una situazione di autorità indefinita, in cui, per proteggere diritti universali, sono costrette a scendere a compromessi con i governi degli Stati-nazione, la cui volontà di accogliere popolazioni in fuga è inversamente proporzionale alla portata e alla durata dei flussi.
Dal momento che non esiste una legge che obblighi uno Stato ad accogliere rifugiati sul proprio territorio nazionale, parte implicita - ma enormemente influente - del mandato UNHCR risulta essere gestire l'equilibrio labile tra l'assistenza ai soggetti che formalmente rappresenta, rispettare le richieste degli Host Governments e soddisfare le pretese degli enti donatori: questo si riflette direttamente sul tipo di assistenza fornito ai rifugiati e porta, nella maggior parte dei casi, all'istituzione di campi chiusi, formalmente temporanei.

I campi costituiscono quindi il punto d'incontro tra gli interessi degli Stati ospiti, che in questo modo salvaguardano i propri cittadini da una competizione per le risorse nazionali, e dei donatori, posti di fronte alla prova tangibile non solo dei risultati ottenuti grazie alle donazioni ma, soprattutto, della continua ed impellente necessità degli stessi, dal momento che, privati del diritto al movimento e al lavoro, gli abitanti dei campi chiusi dipendono totalmente dall'aiuto esterno.
I ‘santuari' in cui vengono protetti coloro che cercano asilo, paradossalmente, si trasformano in prigioni di dipendenza, esclusione e attesa: in un ciclo che si autoalimenta, i soggetti più trascurati sono gli stessi rifugiati.
Pensati e progettati per essere temporanei, infatti, i campi si basano su logiche emergenziali, il cui scopo primario è garantire la sopravvivenza di coloro che li abitano; forzata dalla necessità di una pronta risposta, l'enfasi è posta sulle soluzioni a breve termine, in cui l'interesse per igiene e protezione è molto maggiore di quello per le dinamiche sociali e spaziali del campo come complesso. Di fatto, però, la durata nel tempo di queste strutture si estende molto al di là di quanto previsto, dando luce a situazioni uniche, manifestazioni fisiche dello stato d'eccezione: la condizione di emergenza in cui versano mette in luce tutte le contraddizioni dell'approccio.
I campi sono infatti carenti di tutti le caratteristiche che potrebbero permetterne la durata: la mancanza di una gerarchia tra gli spazi, l'assenza totale di aree dedicate al lavoro o allo sviluppo della vita politica e sociale, sono tutte caratteristiche imputabili alla presunta temporalità; non necessarie per la mera sopravvivenza, in una situazione di emergenza vengono sacrificate in favore dei principi di ordine, omogeneità e controllo.

Allo stesso modo, ulteriore criterio perché gli i Governi ospiti accettino la presenza di rifugiati sul proprio territorio nazionale è la segregazione spaziale, a sua volta inevitabilmente legata al concetto di temporalità: è infatti la caratteristica necessaria per mantenere la provvisorietà dei campi, anche se solo formalmente (KIBREAB, 1991).
A questo riguardo, è importante sottolineare come i confini di un campo per rifugiati abbiano una valenza fortemente simbolica: segnano l'inizio di una zona ‘altra', di uno spazio di extraterritorialità che non rispetta le regole del luogo in cui si inserisce; di fatto il campo nasce come dispositivo che, in un approccio problem-solving, (de)limita i fattori di emergenza in attesa del ristabilimento dello status quo. In questo modo, lo spazio campo appartiene pienamente alla categoria che Marc Augé definisce non-lieux, non luoghi: così come, all'estremo opposto, gli aeroporti e i centri commerciali, è uno spazio dall'identità perduta, senza memoria, completamente slegato da quelli che sono idealmente i luoghi antropologici. Nei campi, suggerisce Agier, il concetto è talmente enfatizzato che si dovrebbe parlare di hors-lieux, luoghi al di fuori, al di fuori cioè del tempo e dello spazio che caratterizzano il "common, ordinary, predictable world" (AGIER, 2002).
Così come la temporalità dei campi è solo presunta, anche la piena segregazione spaziale è irraggiungibile: i campi per rifugiati causano profondi impatti nel luogo in cui vengono insediati, quali che siano i provvedimenti presi da Host Governments e agenzie umanitarie.
Il complesso di Daadab, per esempio, è stato installato nel 1991 nel mezzo del deserto keniano: lungi dall'essere un disincentivo, la sua posizione in una zona scarsa di risorse ha fatto sì che il campo si trasformasse in un centro gravitazionale per le popolazioni circostanti, che spesso si recano nei campi per fare uso dei servizi interni, specialmente delle strutture mediche e scolastiche. A partire dal maggio 2015 è diventato di fatto la quarta città più abitata del Kenya (Figura 1)
Allo stesso modo il campo il campo di Zaatari, in Giordania, il cui confine è circondato da filo spinato e controllato da posti di guardia, intrattiene una tale rete di scambi con il territorio circostante che ne è scaturito un fiorente mercato, inizialmente illegale e ora semi-formalizzato (Figura 2).
Il modello internazionale / Handbook for emergencies
Una importante premessa riguardo il panorama legale concernente lo status dei rifugiati è che non esiste un unico corpo di leggi riconosciuto come tale. Esiste, invece, una complessa gerarchia di convenzioni e politiche, spesso sovrapposte le une alle altre, promulgate e modificate nel corso degli ultimi 70 anni di storia. (KENNEDY, 2007)
Di conseguenza, generalmente vengono stipulati accordi specifici tra gli emissari UNHCR e i governi degli Stati ospiti, cercando di fare in modo che siano il più aderente possibile alle direttive istituzionali: queste sono volontariamente stilate in modo da permettere un certo grado di adattabilità ai diversi contesti. Questi quadri giuridici e normativi hanno un'influenza diretta non solo sulla vita dei rifugiati all'interno dei campi, ma anche sulla forma e struttura fisica degli stessi: un più o meno rigido divieto di movimento, per esempio, plasma e definisce i limiti degli insediamenti, così come i contatti con le popolazioni locali, e così via; spesso, le decisioni prese generano conseguenze che sono in diretto contrasto con le indicazioni istituzionali.

Herz afferma che, dal momento che ogni strategia politica o decisione ha un'immediata conseguenza sulla dimensione spaziale del campo e che, al tempo stesso, ogni modifica a qualsiasi scala si riflette immediatamente a livello politico e demografico, la forma-campo rappresenta "an instance of politics directly translated into space." (HERZ, 2008)
Così come non esiste un corpo di legge che regoli nel dettaglio diritti e doveri dei rifugiati, allo stesso modo non esiste un unico manuale per la progettazione di campi di obbligatoria applicazione. La guida più diffusa e autorevole, però, è senz'altro quella redatta e pubblicata, per la prima volta nel 1981, da UNHCR, ossia Handbook for Emergencies; su questa, generalmente con lievi modifiche, poggiano tutte le guide successive. Proprio per rispettare la necessità di applicabilità universale, in modo da adattarsi in ogni caso agli accordi specifici stretti tra Host Governments e agenzie umanitarie, il manuale si basa su concetti così generici da risultare astratti e, principalmente, parametri numerici.
La dimensione totale del campo è calcolata in maniera rigorosa: idealmente, la superficie per persona dovrebbe essere approssimativamente di 45 mq, con l'indicazione di non scendere oltre al minimo di 30 mq. Oltre allo spazio di abitazione, questi includono una percentuale della metratura necessaria per installare i servizi pubblici, quindi: strade, sentieri, strutture educative e di sicurezza, servizi igienico-sanitari, linee tagliafuoco, aree amministrative, strutture di stoccaggio di acqua e beni, zone di distribuzione. I 30 mq, continua il testo, non includono terreni per significative attività agricole o di allevamento. (UNHCR, 2007)
Lo spazio minimo per persona è l'unico parametro che utilizza il singolo individuo come unità di misura, mentre per la pianificazione effettiva del campo, in quello che viene definito un approccio bottom-up, l'unità minima è la famiglia.
Gli elementi, infatti, sono gerarchizzati a partire dall'unità abitativa basica, nello specifico una tenda per 6-10 persone: 16 famiglie compongono una comunità, 16 comunità un blocco, 4 blocchi un settore e 4 settori un campo, raggiungendo il limite previsto di 20.000 persone (Figura 3).
Ogni comunità include i servizi basici, come latrine, docce, punti di distribuzione dell'acqua e di raccolta dei rifiuti. I servizi non comunitari, come centri educativi e di salute, magazzini, centri di distribuzione, sono elencati in una tabella, a lato del numero di utenti che andranno a servire.
Le uniche indicazioni spaziali fornite raccomandano di progettare le comunità in modo da massimizzare le interazioni interne ed esterne, evitando quindi forme chiuse - come quadrati - per preferire disposizioni più aperte, con una struttura ad H. Infine, è presentato un prototipo ad illustrare lo schema consigliato, corredato da didascalie ulteriori e da misure indicative (Figura 4).

In definitiva, le direttive stabilite in Handbook for Emergencies si occupano di fornire parametri numerici per garantire quella che viene definita un'esistenza dignitosa, stilando, sostanzialmente, una lista di categorie per definire lo spazio necessario per la sopravvivenza di ogni persona e il numero di utenti necessario per giustificare l'installazione di un dato servizio. Il modo in cui questi spazi debbano interagire tra loro, in termini di vicinanza, connessioni e interazioni di uso, nonostante la grande diversità di casi raccolti sotto l'ombrello del termine campo, non è mai specificato.
Il consenso istituzionale su cosa definisca una buona risposta all'emergenza, infatti, si concentra principalmente sulla consegna e distribuzione iniziale di materiali e sul valore qualitativo dei rifugi stessi, con poca o scarsa considerazione per gli aspetti performativi del campo come unico complesso, campo che, invece, viene prevalentemente concepito e disegnato come l'insieme di oggetti singoli. Non esistono, ad oggi, strumenti specifici per valutare come un campo agisca dal punto di vista qualitativo e le ricerche per definire in che modo i differenti spazi siano utilizzati dai rispettivi occupanti sono praticamente nulle.
Ne consegue necessariamente che la struttura del campo sia sempre fondata sulla risposta alle necessità più basilari della vita biologica, in modo da salvaguardare la salute pubblica, ridurre il rischio d'incendio e distribuire beni materiali - compresi acqua e cibo - in maniera efficiente ed equa.
Nell'assenza di direttive più specifiche di quelle di Handbook for Emergencies, si è sviluppata nel tempo un'unica corrente tipologica che riflette le caratteristiche della quasi totalitá dei campi formali. Secondo quanto riportato da Kennedy, il primo ad attribuirgli il nome di International Model, il modello è in evoluzione dagli anni ‘70 ed è diffuso globalmente, nei piú differenti contesti sociali e culturali (KENNEDY, 2007).

La struttura fisica dei campi infatti, per quanto siano considerati sotto lo stesso termine casi diversissimi tra loro, mantiene sempre i medesimi elementi, in un set estremamente limitato di diversità e gerarchie spaziali. Quasi come materializzazione diretta dei parametri descritti dal testo, lo spazio residenziale è quello predominante ed è costituito, seguendo lo schema a griglia o meno, dalle abitazioni e dai servizi comunitari basici; è sempre modulare, in modo che la somma delle unità singole, in genere la singola abitazione o un gruppo contenuto di queste, sia al tempo stesso base e unità di misura dello spazio complessivo. Alle aree residenziali si contrappone, spesso in maniera netta, lo spazio pubblico, dove si trovano invece i servizi fondamentali, tra cui le zone amministrative, i punti di accoglienza e di smistamento, le strutture mediche e i centri per la distribuzione di cibo. I servizi pubblici, in genere, sono collocati in prossimità dell'accesso principale per ovvie questioni logistiche.
Non esistono, almeno a livello progettuale e teorico, altri tipi di spazio oltre a quelli descritti.
Le linee guida proposte ricordano fortemente le prime ed idealizzate città moderniste, basate su un'organizzazione rigida, con bassa densità e una chiara separazione di usi e funzioni; la grande maggioranza del tessuto del campo, una distesa residenziale, si presenta come una infinita periferia, senza la città corrispondente (HERZ, 2008).
Lo schema illustrato rappresenta la concretizzazione degli obiettivi principali delle politiche di assistenza, in cui il rifugiato è concepito nella sua vita nuda, biologica: garantire ciò che è necessario per la sopravvivenza. Dal momento che non vengono prese in considerazione la sfera politica e sociale, del resto, viene a mancare la necessità di un qualsiasi spazio ‘altro', che effettivamente non è nemmeno mai nominato dai manuali istituzionali. Nei testi si parla, infatti, di quello che viene definito astrattamente un senso di ‘comunità' , ma l'argomento viene affrontato in un modo che lo svuota di qualsiasi significato. Eppure, è particolarmente interessante tracciare l'evoluzione dei testi istituzionali nel corso del tempo, perché la maggior parte dei parametri derivano - pur arricchiti e modificati - da un campo specifico, prototipo inconsapevole del modello internazionale.

Il campo in questione è stato progettato da Frederick Cuny, ingegnere americano con vocazione umanitaria, e dalla sua organizzazione, Intertect, in un contesto in cui la risposta all'emergenza non era ancora pienamente regolata e documentata. Il lavoro di Cuny nell'ambito della risposta all'emergenza nei paesi sub-industrializzati rimane ad oggi tra i più influenti in assoluto, non solo per le tesi espresse nei numerosi scritti ma, soprattutto, per le assunzioni implicite nei suoi progetti, adottate e applicate da allora, spesso in maniera completamente acritica. Tra le lezioni principali si evidenziano l'enfasi posta sulla necessità di utilizzare un approccio multisettoriale ed olistico - che consideri cioè il campo nella sua totalità - e, soprattutto, l'importanza di considerare la volontà delle popolazioni colpite e la loro capacità di self-support, principi che ancora vengono regolarmente citati nei testi di riferimento internazionali.


Cuny / El Coyotepe camp
Il campo di El Coyotepe, in Nicaragua, venne progettato a seguito del terremoto del dicembre 1972. Il governo nicaraguense, ad una settimana dalla catastrofe, promosse la creazioni di diversi campi per alloggiare quella parte della popolazione che, per mancanza di altri mezzi, si era insediata in piazze, giardini pubblici e lotti vacanti. El Coyotepe, situato a pochi chilometri da Managua, a Masaya, fu costruito unicamente dai rifugiati stessi, che intervennero anche nell'apportare alcune modifiche al layout complessivo.
Dal punto di vista legale, è importante specificarlo, il campo venne costruito per ospitare Internally Displaced People, persone dislocate ma all'interno dei propri confini nazionali, influenzando non solo la suddivisione delle responsabilità legali tra Stato e organizzazioni umanitarie, ma, soprattutto, le prospettive per il lungo termine: mentre ai rifugiati è generalmente impedito, almeno formalmente, di ottenere mezzi di sostentamento o un lavoro all'esterno del campo, gli IDP sono invece incentivati a tornare velocemente alla situazione pre-disastro, in modo da affrancarsi rapidamente dalla condizione di emergenza. Gli abitanti di El Coyotepe, quindi, vennero da subito supportati nel rapido recupero delle attività e dei mezzi di sussistenza, anche grazie alla creazione di spazi appositi, con l'obiettivo principale di reintegrare la popolazione colpita nel luogo di nuovo insediamento. Il confine ideologico tra rifugiati e IDP, però, era all'epoca come tutt'ora talmente labile che non solo nei vari rapporti gli abitanti di El Coyotepe vengono identificati sempre come refugees, ma anche che una significativa porzione degli sviluppi nella pianificazione di campi per rifugiati sono stati ottenuti proprio attingendo alla letteratura riguardante la risposta a disastri naturali, e, di conseguenza, si possono identificare alcune chiare ma non rimarcate influenze che hanno avuto un impatto notevole sull'evoluzione del modello attuale.
Il layout selezionato per il campo di El Coyotepe prese il nome di modified cross axis plan, dalla disposizione assiale dei settori residenziali rispetto al fulcro centrale (Figura 5).
La scelta di emanciparsi dal modello a griglia, l'unico utilizzato fino a quel momento, viene rimarcata e giustificata con decisione nei rapporti, con particolare enfasi sull'attenzione posta nel ricreare un senso di vivibilità comunitaria: nel descrivere la struttura dell'insediamento, Cuny descrive con attenzione le aree dedicate ad attività comuni, gli spazi per cucinare e quelli ricreativi (CUNY, 1973).

Il numero di abitazioni per ogni unità, cluster, non è fissato in maniera rigida e oscilla tra 10 e 20 tende, rimarcando la flessibilità del modello. Allo stesso modo, perimetro esterno non è sempre quadrato, ma si adatta allo spazio circostante. Questa flessibilità è parte integrante della strategia, tanto da essere ripresa nello schema del modello del campo, inserito posteriormente nelle linee guida Intertect: soprattutto acquista rilievo se confrontato con le direttive attuali, dove il concetto stesso di comunità è basato sul numero di unità abitative che le compongono.
L'area tra i cluster permette il passaggio di veicoli d'emergenza e funge, allo stesso tempo, da barriera tagliafuoco: lo spazio è facilmente leggibile e lo spostamento da una parte all'altra del campo non è ostacolato da alcuna barriera. Non esiste un confine fisico tra il campo e l'ambiente circostante e l'unico perimetro definito è tracciato dalle due strade principali che costeggiano i lati inferiori dell'accampamento; queste non sono parallele alla disposizione delle communities ma vi sono collegate da un unico, facilmente identificabile, accesso principale, una strada costeggiata da abitazioni che conduce fino allo spazio centrale. Qui sono posizionati gli edifici amministrativi e i servizi principali, tra cui quelli sanitari e i magazzini e i punti di distribuzione di acqua e altri beni primari, in un evidente tentativo di minimizzare la distanza tra centro e aree residenziali, sempre in maniera equa. L'ampio spazio libero che circonda il campo funge da luogo per gli incontri pubblici e, ancora, da spazio ricreativo per adulti e bambini, con l'inserimento di un grande playground e di un'area dedicata allo sport. Le latrine, in quella che verrà considerata la più grave mancanza del campo, sono posizionate all'esterno del perimetro residenziale, ad una relativa distanza rispetto alle tende.

Il progetto venne considerato un successo a tutti gli effetti, soprattutto perché fu possibile confrontrarne l'operato con quello degli altri campi, a schema classico, costruiti dall'esercito americano. Il paragone è particolarmente significativo perché le situazioni sociali, economiche e culturali di partenza erano identiche: i rifugiati divisi tra i vari campi appartenevano omogeneamente alle stesse classi sociali, condividevano le stesse abilità tecniche e ricevettero gli stessi servizi. Inoltre, vennero usate le stesse tipologie abitative e di servizi igienici, così come furono identici per quantità e qualità i beni materiali inizialmente distribuiti (CUNY, 1977). In questo contesto, è facile evidenziare gli effetti delle diverse pianificazioni sullo sviluppo e sul mantenimento di un campo. Cuny scrive:
"The differences between their [dell'esercito americano] camps and Coyotepe were amazing. As a sample: our camp cost 37% less to operate. There were no major health problems in Coyotepe. The Army camps were plagued with skin infections, various waterborne diseases and several outbreaks of minor contagious disease. At the Tipitopa camp, 100% inoculations were conducted 6 times; at Coyotepe no inoculations were ever given (...). At Tipitopa, the Army had to forcibly segregate one segment of the camp to keep order, and thefts were prevalent. A strong refugee council evolved at Coyotepe and informal organizations abounded; at the Army camps, participation was weak and the volunteers working there reported extreme apathy was prevalent." (CUNY, 1977)
Sulla base di quanto riportato finora, si può ragionevolmente presumere che il layout del campo abbia facilitato l'organizzazione della comunità, abbia promosso un sentimento di sicurezza, ridotto l'incidenza di malattie e il livello di controllo necessario per amministrare il campo, nonché i costi di gestione complessivi.
In una estrema sintesi della storia dell'assistenza ai rifugiati, il campo di El Coyotepe servì da modello per alcuni campi successivi tra la fine degli anni ‘70 e l'inizio degli anni ‘80, con risultati promettenti. Fu proprio sulla base degli studi di Cuny, inoltre, che vennero formulate le prime versioni di Handbook for Emergencies, cercando di istituzionalizzare i criteri da lui applicati in modo da diffonderli su larga scala.

Il costante aumento della portata dei flussi migratori però, unitamente ad altri fattori, portò gradualmente al calare delle sperimentazioni in favore di modelli che consentissero di massimizzare la distribuzione di aiuti. Nel 1985 una serie di siccità e carestie decimò la popolazione rurale africana, causando ingenti flussi migratori: i partners economici delle agenzie umanitarie si trovarono a fronteggiare un'emergenza di larga scala che richiese l'impiego di tutte le risorse disponibili (KENNEDY, 2007). Con l'ampiezza del fenomeno in rapida crescita e, soprattutto, con la crescente consapevolezza del protrarsi dell'esistenza di campi solo nominalmente temporanei, i Paesi ospiti cominciarono a sviluppare quella che verrà definita Host fatigue e si dimostrarono sempre meno inclini ad accettare che i rifugiati si stabilissero permanentemente, insistendo che i campi e i loro abitanti venissero mantenuti il più possibile lontani dalle comunità locali (CRISP, 2001).
In risposta alle pressioni, l'UNHCR cominciò un colossale lavoro di revisione delle proprie politiche e selezionò il rimpatrio, possibilmente rapido e volontario, come prima e più auspicabile soluzione al problema dei rifugiati, mentre fino a questo momento ogni tentativo era teso all'integrazione nello Stato di accoglienza. Nel corso delle varie revisioni di Handbook for Emergencies vennero eliminati dalla pianificazione tutti gli elementi che potessero suggerire la volontà di trasformare gli insediamenti in qualcosa di permanente, in un processo che, nella versioni successive, portò all'eliminazione dal testo di tutti i vocaboli che alludessero ad un utilizzo a lungo termine, sostituendo "housing" con "shelter" e "villages" e "streets" con altri termini più neutrali.
L'ultima versione di Handbook for Emergencies, commentata all'inizio del testo, risale al 2007.

Nonostante le numerose critiche e gli avvertimenti a riguardo, i campi continuano ad essere la soluzione più applicata dalle agenzie umanitarie, principalmente perché costituiscono il metodo migliore per distribuire e monitorare la prestazione di aiuti (DALAL, 2014).
Così come si può affermare che la sopravvivenza dei rifugiati, soprattutto nel caso dei campi chiusi, dipenda quasi esclusivamente dagli aiuti umanitari, allo stesso modo, ironicamente, l'intera sopravvivenza del sistema umanitario dipende dalle donazioni internazionali. È un sistema in bancarotta, in cui i donatori sono poco propensi a finanziare soluzioni che si spingono ben oltre la durata della prima fase di emergenza. É urgente rinnovare il sistema di assistenza ai rifugiati e, soprattutto, estendere il dibattito anche all'ambito urbanistico e architettonico. Pur considerando come inevitabili le restrizioni imposte dagli Host Governments, non c'è ragione perché i campi non vengano progettati per garantire il benessere, anche politico e sociale, tanto di coloro che li abitano quanto delle comunità di accoglimento e, idealmente, l'autosufficienza.
In conclusione, nella ricerca di nuovi modelli fisici che siano più aderenti alle teorie di self-reliance promosse da UNHCR nell'ultimo periodo, si rimanda all'approfondimento di due casi recenti, molto differenti tra loro, che possano generare riflessioni da applicare nella risposta umanitaria: il campo di Mugombwa, in Ruanda, e quello già nominato di Zaatari, in Giordania.

Il primo caso, più concreto, vuole mettere il luce le potenzialità nell'applicare i nuovi programmi e le nuove tecnologie alla costruzione e progettazione di campi per rifugiati. Si tratta di un campo progettato grazie all'ausilio di un toolkit creato da un team di architetti, Ennead Lab, uno strumento che si basa sui sistemi informatici più attuali per massimizzare gli effetti positivi che può avere l'installazione di un campo su un territorio ospite. Oltre allo strumento in sé, infatti, è particolarmente positivo il fatto che questo sia coniugato con una teoria solida, che contempla le strutture costruite e i fondi impiegati per i rifugiati come una risorsa da far fruttare al meglio.
Il secondo caso invece è stato scelto perché Zaatari, molto studiato a livello internazionale, permette di identificare con chiarezza quali trasformazioni informali possa subire un campo chiuso, costruito e gestito secondo il modello fin qui presentato,in pochissimo tempo dalla sua fondazione. Consente quindi di mettere in luce i limiti del modello formale, già illustrati a livello teorico e, soprattutto, di comprendere le dinamiche sociali, politiche ed economiche che hanno preso piede all'interno del campo. u


BIBLIOGRAFIA

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